Fly me to the Moon.

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  1. Leah.
     
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    In quel momento fu come se aprire una porta fosse un'impresa straordinaria. La mia mano ondeggiava, avvicinandosi e ritraendosi dalla maniglia, veniva attirata e respinta da ciò che mi aspettava oltre; un uomo a cui tenevo, che dovevo affrontare. Feci un passo in avanti, in modo da essere prossima ad essa, quasi potevo poggiarci la fronte. Feci ticchettare le dita sul legno, trascinandole verso il basso, fino alla maniglia. Sentii il cuore battere più forte, il respiro mancare. Non sapevo come mi sarei dovuta comportare, o cosa fosse meglio dire. Sapevo che avevo sbagliato, in un certo senso. Sapevo di averlo messo in una situazione scomoda e che era a disagio a causa mia, solo ed esclusivamente mia. Sospirai e alzai lo sguardo, come per chiedere consiglio a un qualcuno di inesistente, come se l'idea giusta sarebbe scesa su di me, ma non accadde nulla. Ero sola in quella stanza, potevo decidere se rimanere lì dentro, cosa molto infantile ed insensata, in quanto prima o poi sarei dovuta uscire ed affrontare la realtà, o decidermi a varcare la soglia e raggiungere l'uomo che amavo. E così feci.
    Senza pensarci troppo aprii la porta e feci il primo passo verso l'esterno. Poi il secondo. Il terzo. Ad ogni passo sentivo crescere dentro di me il dubbio se ce l'avessi fatta. Ad ogni passo sentivo crescere in me la certezza del sentimento che provavo. Cominciai a far scorrere la mano sulle pareti e le grate del Tardis, cercando di non fare rumore, mantenendo quel suono basso, forse solo per distrarmi.
    La intravedevo, la Sala Comandi. Forse sarei dovuta tornare indietro, potevo prendermi qualche minuto in più per asciugarmi i capelli, ancora umidi, che cadevano sulla maglietta con la Union Jack sopra. Sorrisi. Dovevo davvero temere qualcosa? Ci pensai: nessuno dei due aveva sbagliato, eravamo il Dottore e Rose Tyler, quel che era accaduto era solo un momento in cui era evidente il nostro essere una coppia di impacciati. Non c'era tempo per scusarsi o star male per cose che non esistevano, o almeno, io non lo avevo. Volevo vivere tutto quel tempo che mi restava al massimo, con lui. Nel bene e nel male, sempre col il sorriso sul volto. Riguardai l'entrata della Sala Comandi, quasi con sguardo di sfida, per poi prendere un po' di rincorsa e piombare lì, girando intorno alla console. «Allora?» chiesi «Non eravamo diretti a Parigi?» continuai, con un grande sorriso.
     
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